32ª DOMENICA “per annum” – B

La Liturgia della Parola di questa domenica ci presenta due donne.

La prima è una pagana, è la vedova di Sarepta. Questa non ha più nulla per vivere se non “un pugno di farina” e “un po’ di olio”. Di fronte alla necessità di Elia, il profeta, che insiste per un tozzo di pane, ella cede alla generosità che si fa condivisione. Sulle prime, ella è quasi frenata, considerando il “poco” che possedeva: ha quasi timore di perdere, donando e condividendo. Provocata, però, dal bisogno dell’altro, bisogno tra l’altro uguale a quello che ella stessa sperimentava, si lancia in un atto di generosità, che però le frutta un’abbondanza insperata.

È evidente l’insegnamento che ci viene consegnato: accorgersi e farsi carico del bisogno dell’altro, andando oltre le proprie resistenze, anche razionalmente legittime, produce il miracolo dell’abbondanza.

A tal proposito il racconto che fa Madre Teresa di Calcutta di un episodio, di cui fu testimone, è esemplare. “Una sera mi riferirono che c’era una famiglia con otto creature e che da giorni non toccava cibo. Presi qualcosa da mangiare e andai da loro. Quando mi aprirono la porta, vidi le facce di quei bambini segnate dalla fame. Consegnai il riso alla mamma. Ella ne fece due porzioni e uscì di casa; quando tornò, le domandai: Dove sei andata? Mi rispose molto semplicemente: Anche loro hanno fame. Loro erano i vicini di casa”. E Madre Teresa commentava: “Non mi sorprese il gesto di condivisione, perchè i poveri sono generosi e ospitali con i propri simili, ma che lei sapesse della fame dei vicini era qualcosa di miracoloso: quando la fame dell’altro fa dimenticare la propria, l’amore di Dio scrive storie incredibili di solidarietà”.

L’altra donna è un’ebrea, è una povera vedova ebrea. Questa non ha più nulla per vivere se non “due monetine” e le getta nel tesoro del Tempio. Non compie un atto di generosità e di condivisione, ma è soggetta ad una religione che “divora le case delle vedove”. Gesù non elogia la donna, ma denuncia una cultura, quella del Tempio, che pretendeva che anche i poveri dessero il proprio contributo per le spese del Tempio. Anziché pretendere dai ricchi che non dessero solo “il loro superfluo”, ma quanto potesse servire per “soccorrere vedove ed orfani”, la religione del Tempio acconsentiva al sacrificio estremo del povero.

È attuale l’insegnamento che anche questa donna ci lascia come provocazione. La fede deve tradursi in giustizia, perchè tutti siano resi primi, cioè tutti siano messi in grado di concorrere alla propria realizzazione di vita. E perchè questo si verifichi è necessaria una cultura della solidarietà, in cui chi ha di più contribuisca non al mantenimento di chi ha di meno, ma al riequilibrio delle posizioni di partenza. Anche perchè tante volte la povertà è generata non tanto dall’inettitudine o dalla pigrizia di alcuni, ma dalla voracità di chi vuole accumulare e avere più degli altri, obbedendo solo alla legge della giungla, quella del più forte.

Ora, queste due donne, accostate tra loro dalla Liturgia di questa domenica, ci indicano il volto di Cristo, che, prendendo su di sé la nostra miseria, ha ristabilito la giustizia di Dio, rendendoci figli e non più schiavi, liberi e non più sottomessi, ricchi e non più poveri. La Chiesa, che è chiamata a prolungare nel tempo e ad attualizzare l’opera viva di Cristo, non può rinunciare alla lotta per la giustizia, una lotta non armata, ma giocata sul fronte della condivisione, perchè nessuno sia escluso dal banchetto della vita.

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