1ª domenica di Avvento – anno C

Inizia con questa prima domenica di Avvento un nuovo anno liturgico, un nuovo cammino, che ci offre la possibilità – diceva san Paolo nella II lettura odierna – di “progredire ancora di più” nel “modo di comportarvi e di piacere a Dio”.
In questo inizio ci viene prospettato il fine, ossia la meta del cammino dell’umanità: “Vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria”. È Cristo, il Risorto, il punto di convergenza di tutta la storia. Esiste – ed è innegabile – un male che attraversa i secoli e che assume di volta in volta nomi e aspetti sempre nuovi e diversi. Ma il Vangelo ci invita a non fermarci a questo, a non vedere nel male il capolinea di tutta la vicenda umana, anche personale, ma a tendere lo sguardo, come si fa con l’arco che scocca la freccia, a risollevarsi e ad alzare il capo per contemplare e accogliere “la liberazione vicina”. Vegliare, allora, significa aprire gli occhi e tenerli aperti sul bene che silenziosamente cresce e trionfa: solo così si avrà “la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire davanti al Figlio dell’uomo”. E la preghiera, assidua e costante, è quel “collirio” necessario perchè la nostra vita sia illuminata dal bene e orientata ad esso.

C’è un lavoro su se stessi, che è necessario fare per non chiudere gli occhi e non smettere di aprire il cuore a Dio; è un lavoro di ascesi perchè – come ci dice Gesù nel Vangelo – i nostri cuori “non si appesantiscano” e siamo trovati impreparati all’appuntamento decisivo della nostra vita e della nostra storia; è un lavoro che permette all’umano che noi siamo di rimanere in piedi e a testa alta.
Tale lavoro su noi stessi riguarda innanzitutto le “dissipazioni”: siamo portati a consumare tutto, sprecando, dall’acqua alle relazioni. Siamo voraci consumatori di esperienze, spreconi di tempo, inguaribili “giocatori d’azzardo”. Al contrario, per rimanere svegli è da praticare la virtù della prudenza, che ci fa discernere la profondità delle piccole cose e ci fa gustare e riempire di senso ogni tempo o relazione che viviamo.
Gesù ci invita a guardarci anche dalle “ubriachezze”, dagli stordimenti che i nostri egoismi producono in noi. Siamo ubriachi di visibilità, di autoreferenzialità, di protagonismo a tutti i costi e con tutti i mezzi. Siamo un po’ tutti vittime della sindrome di Narciso, che ci fa contemplare solo il nostro volto e la nostra bellezza. Al contrario, la virtù dell’umiltà ci fa riconoscere piccoli e fragili, anche se unici e irripetibili, ci dona la capacità di fare spazio ad altro e ad altri.
Infine, Gesù ci mette in guardia dagli “affanni della vita”, quelli che nascono e si affollano quando prevale il fare sull’essere, oppure l’avere e l’accumulare sul condividere, oppure ancora l’apparire sull’essere autentici. Al contrario, la virtù della sobrietà è l’antidoto che permette di recuperare l’essenziale, che dà pace e serenità ai nostri giorni. La sobrietà del fare e del parlare è la via per ritrovare quell’interiorità, spesso offuscata e adombrata, ma necessaria per scegliere – a detta di Gesù – “la parte buona” (Lc 10,42). “Bisogna che ognuno vigili sulle proprie azioni per non faticare invano” (abba Arsenio).

Impariamo da Maria ad accogliere lo Spirito che vuole fare di noi un segno visibile del sogno di Dio, quello cioè di una umanità nuova e pronta ad accogliere il Cristo che viene “a rinnovare la faccia della terra” (Sal 103).

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