Giovedì Santo – Messa “In Coena Domini”

Questa celebrazione così solenne rappresenta una sorta di portale di ingresso al grande Triduo Pasquale che avrà inizio domani. Oggi facciamo memoria viva e grata del dono dell’Eucarestia che Gesù istituì in quell’ultima cena prima dell’arresto. Proprio “nella notte in cui veniva tradito”, la notte dei tradimenti e degli abbandoni, Egli spezzò il pane, intendendo così consegnare la sua vita, che è vita stessa di Dio, a noi e a tutti gli uomini. Quel gesto rituale, realizzato in quella notte, troverà il compimento pieno sulla croce, dove, prima di spirare, Egli disse: “È compiuto!”. Da quella prima Pasqua di morte e resurrezione i cristiani, spezzando il pane e condividendo il calice, rendono attuale per ogni tempo e per ogni uomo quel dono di amore, il dono della sua vita divina, “finché Egli venga”.

Durante quell’ultima cena Gesù volle compiere un altro gesto memoriale, che ricordasse nei secoli la ricaduta concretissima che il memoriale del suo sacrificio d’amore, che celebriamo di volta in volta nell’Eucarestia, deve avere nella vita di tutti i credenti. Egli compì il gesto scandaloso della lavanda dei piedi, chiosandolo con un’indicazione chiara: “Anche voi dovete lavare i piedi gli altri gli altri”. Celebriamo degnamente la santa Eucarestia quando il rito non è ridotto a lettera morta, ma diventa impulso di carità nei credenti. Mangiare il suo Corpo e bere al suo Calice si spinge a piegarci sui piedi dei nostri fratelli, su tutti i piedi, anche su quelli di Giuda.

Questa sera ripeteremo lo stesso gesto di Gesù. A nome di questa comunità mi piegherò sui piedi di alcuni fratelli e sorelle in umanità, che calcano con noi le vie della vita. Sono uomini e donne, giovani e ragazzi “della via”. Pure noi cristiani – dice Luca negli Atti degli Apostoli – siamo “quelli della Via”, cioè coloro che seguono Gesù, che è la Via della Vita, sulle vie del mondo chiamati ad incrociare i tanti volti, differenti e preziosi, di donne e uomini che percorrono la nostra stessa quotidianità. Piegarci su questi piedi significa per noi uscire “dai luoghi del nostro isolamento, dalle case con le porte sbarrate per paura di essere braccati”, e ributtarci “lungo la via”. Piegarci sui piedi di quelli “della via” ci ricordi che “la fede nel Dio di Gesù vive di relazioni, di volti che si riconoscono, di mani che si stringono, di cuori che si appassionano”. Sentiamo rivolto anche a noi quell’invito perentorio che nella parabola lucana del banchetto il padrone rivolge al servo: “Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci poveri, storpi, ciechi e zoppi … costringili ad entrare perchè la mia casa si riempia” (Lc 14, 21b.23c). Egli desidera che tutti gli uomini possano sedere al banchetto festoso del suo regno: a noi il compito di indicare a tutti gli uomini e le donne di questo tempo la grande opportunità riservata anche a loro. 

Vorrei concludere con questa pagina di don Tonino Bello a proposito dei piedi di Bartolomeo.

L’altro giorno ho ricevuto questa lettera.

“Caro Vescovo, io non sono né marocchino, né tossicodipendente, né sfrattato. Temo, perciò, di non aver udienza presso di te. Perché ho l’impressione che oggi, se non si appartiene a quel campionario di umanità che ha a che fare con la violenza, con la prostituzione, con la miseria economica e morale, non si è in possesso dei titoli giusti per entrare nel cuore di Dio. Ma è colpa mia se la casa io ce l’ho, e il lavoro anche? Debbo farmi uno scrupolo se non ho mai rubato, e in tribunale non ci sono entrato neppure come testimone? Mi devo proprio affliggere se, grazie a Dio, non ho grossi problemi di salute né soffro di solitudine? Quando ti sento parlare degli ultimi, e affermi che la Chiesa, a imitazione di Gesù, deve esprimere un amore preferenziale verso coloro che sono precipitati nell’avvilimento del vizio e dell’alcool, io, che per giunta sono astemio, mi sento quasi un escluso. E mai possibile, mi chiedo, che il Signore mi scarti sol perché non frequento le bettole, e la sera mi ritiro a casa in orario? Debbo proprio ritenere una disgrazia il fatto che nella graduatoria, sia pure effimera, dell’estimazione pubblica, invece che gli ultimi posti, occupo posizioni di tutto rispetto? Ricco non sono, ma non mi manca il necessario per tirare avanti con una certa tranquillità. Non ho mai tradito mia moglie. I miei figli, che non sono né malati di Aids né disoccupati, mi danno tantissime soddisfazioni. Mi reputo fortunato. E sarei l’uomo più felice della terra se, da un po’ di tempo a questa parte, a seguito di certi discorsi che ascolto in chiesa e a certe lettere che scrivi tu, non mi fosse venuto il dubbio che senza un certificato di emarginazione, vistato magari dalle patrie galere, mi sarà difficile l’ingresso nel Regno di Dio. Dimmi, vescovo:

ma un pò d’acqua nel suo catino Gesù Cristo non ce l’avrebbe anche per me?».

[…]

siccome so che gli stessi interrogativi sono condivisi da più di qualcuno, ho pensato bene di rispondere, per così dire, ad alta voce.

Mi viene in aiuto la figura evangelica di Natanaele, identificato dalla maggior parte degli studiosi col figlio di Tolomeo e detto, perciò, Bar-Tolomeo.

Era un uomo così pulito e trasparente, che quando Gesù lo vide la prima volta esclamò: «Ecco davvero un israelita in cui non c’è falsità».

Secondo l’evangelista Giovanni, questo apostolo simbolizza addirittura tutta una categoria di persone, e cioè gli israeliti fedeli, che non hanno tradito mai il Dio dell’alleanza, si sono mantenuti irreprensibili fino alla venuta del Messia, e da lui sono stati invitati a entrare nella sua nuova comunità.

Ebbene, la sera del giovedì santo, Gesù si è curvato a lavare anche i piedi di Bartolomeo, l’uomo onesto, nei cui occhi un giorno, mentre si trovava sotto il fico, egli, il Maestro, aveva visto specchiarsi il cielo limpido della rettitudine.

Anche quel cielo, però, aveva la sua piccola nube. Quando, infatti, Filippo gli andò a dire che Gesù di Nazareth era il Messia, lui, l’israelita integerrimo, il galantuomo, aveva replicato: «Da Nazareth può mai venire qualcosa di buono?».

Carissimi fratelli onesti, […] Non abbiate paura, perciò, di essere discriminati dal Signore. Egli, nel suo catino, l’acqua ce l’ha pure per i vostri piedi che, se si sono contaminati, è solo per la polvere della strada percorsa per andarlo a trovare.

Vi lava e vi asciuga con la stessa tenerezza. Perché vi vuol bene da morire. Anzi, vorrei aggiungere che egli, sulle vostre estremità, indugia di più. Così come si indugia di più a detergere un cristallo di Boemia che a lavare un bicchiere di creta carico di tartaro.

I vostri piedi li lava e li asciuga con identico amore. Anche perché, forse, tra gli alluci, si nasconde una piccola macchia difficile a scomparire: la riluttanza a ricevere. Dite la verità, non avete mai affermato pure voi: che cosa può venire di buono da Nazareth?

Forse questo è il vostro peccato, piccolo quanto volete, ma che vi colloca tra gli ultimi, pure voi. Vi siete esercitati solo a dare. A ricevere, no. Da un drogato può mai venire qualcosa di buono? Da una prostituta? Da un avanzo di galera? Che cosa può dare mai un marocchino, se non un pericolo di infezioni?

Forse questa è l’unica colpa che obbliga Gesù a inginocchiarsi dinanzi a voi e che spinge la Chiesa a fare altrettanto: non voler ammettere, sia pure per raffinate ragioni estetiche, che i poveri abbiano qualcosa da insegnarvi in termini di crescita umana. […]

Non abbiate paura, fratelli irreprensibili e buoni. Gesù Cristo si piega anche su di voi. Se non altro, per dirvi che non serve a nulla svuotare la casa per gli infelici, se poi non sapete introdurre qualcosa che essi possano offrirvi, sia pure un «souvenir».

A me e a tutti voi, che apparteniamo alla confraternita dei galantuomini, conceda il Signore di capire che metterci sulla pelle la camicia dei poveri vale più che lasciarci scorticare vivi per loro”.

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