33ª DOMENICA “per annum” – B

In questa penultima domenica dell’anno liturgico la Parola di Gesù ci spinge alla fine dei tempi, per indicarci tuttavia che proprio nella fine vi sarà un compimento. Il versetto centrale della pagina evangelica, infatti, è: “Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria“. Quindi, potremmo affermare che tutto, sì, finisce, ma nulla è perduto perché tutto tende ad un compimento, e questo compimento è Gesù stesso: in lui la nostra vita e la nostra storia trovano quella pienezza che niente e nessuno può offrirci.

Un primo elemento è importante focalizzare ed è ben espresso dal versetto: “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno“. Niente è “assoluto“ in questa vita: né la salute, né gli affetti, né i progetti sono il fine per cui vivere, ma solo strumenti o tappe per raggiungere la meta, che è Dio. Ricomprendere questo aspetto non significa deresponsabilizzarsi, ma vivere con più serenità la propria esistenza. Solo chi sa dare il giusto valore ai soldi, al lavoro, gli affetti, ai ruoli che è chiamato a ricoprire, alle relazioni e vive proteso alla meta, cammina sereno e felice come “bimbo svezzato in braccio a sua madre“ (Sal 130).

Una seconda considerazione che ci suggerisce il Vangelo odierno riguarda la possibile preoccupazione dei discepoli di Gesù in riferimento alla fine dei tempi. Egli avverte che il problema non è “quando“ accadranno i segni che annunciano la fine, ma se sapremo farci trovare pronti all’incontro con Gesù risorto. Come anche, il problema non è sapere “come“ avverranno le cose ultime, ma “come“ dobbiamo comportarci oggi nell’attesa di esse. La Parola di Gesù ci invita ad escludere “tanto l’impazienza quanto l’assopimento, tanto le fughe in avanti quanto rimanere imprigionati nel tempo attuale e nella mondanità“ (Papa Francesco).

Come superare questa impasse? La giornata che oggi viviamo come Chiesa cattolica è illuminante: l’attenzione e la scelta preferenziale dei poveri ci libera dalle fughe in avanti, perché ci mette a contatto con i drammi, i disagi, le fatiche della povera gente, che pure ha diritto come noi e con noi a vivere una vita dignitosa, ma al tempo stesso ci toglie dal vortice dell’assopimento, perché ci spinge ad agire, a trovare soluzioni, a rispondere al grido del povero con “quell’attenzione d’amore che onora l’altro in quanto persona e cerca il suo bene“ (Papa Francesco). In Evangelii Gaudium (n. 187) il Papa afferma: “Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società, e questo suppone che siamo docili e attenti ad ascoltare il grido del povero e soccorrerlo“.

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